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Come Caronte

Qualche giorno fa ero a Bari, zona Piazza Umberto, di fronte all’Ateneo; è un percorso che non frequento più, tanto meno in modo assiduo, rispetto ai tempi in cui frequentavo l’Università e quella era zona di passaggio, diciamo pure, continuo. In quel luogo, in quel preciso istante, sono stata assalita da un impetuoso senso di “estraneità”, e non perché non riconoscessi più quei luoghi, ma perché i colori e le lingue che mi circondavano non erano più gli stessi.

Vi capita mai di attraversare, qui a Noci, via Aldo Moro, nei pomeriggi di bel tempo? Le lingue che si ascoltano pronunciano parole che alle nostre orecchie appaiono tutte simili tra loro, che si snodano veloci e incomprensibili in fitti discorsi. Sono mondi che si incontrano e si legano a quelle parole, perché anche solo una parola, ma pronunciata nella lingua d’origine, può servire a ricollegare, se pur lievemente, i fili che legano alla terra natia, ai genitori, ai mariti, ai figli.

Sono donne di ogni età a pronunciare quelle parole, di varie nazionalità, ma accomunate da un destino difficile, incomprensibile per chi, come noi, si domanda “ma come fanno a stare qua, dopo aver lasciato tutto?”

Donne che come un moderno Caronte si assumono il compito di traghettare i nostri cari verso l’altro mondo. Che poi il prezzo sia due monete, come chiesto da Caronte, o 1000 euro al mese, oltre a TFR e ferie pagate, non importa. Il nostro obolo sarà comunque posato sugli occhi chiusi di chi dovrà essere traghettato.

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